Ho avuto il mio primo contatto con l’anoressia sin dall’infanzia, perché un mio parente ne soffriva dall’adolescenza. Anche se da piccoli non ci si rende conto fino in fondo dei problemi dei grandi perché si vive principalmente in un mondo di fantasia, mi accorgevo dell’infelicità che pervadeva questa persona. Mi rendevo conto della sua fragilità.
Poi alle superiori il mio corpo ha iniziato a trasformarsi e anch’io come le ragazzine di quest’età ho inutilmente iniziato una dieta, un po’ perché non pensavo che il mio corpo fosse asciutto e adatto all’atletica agonistica, un po’ anche perché mi dicevano che ero ingrassata. “Hai il sedere da matrona romana!” mi veniva detto, ma devo dire che nonostante i miei tentativi non sono mai riuscita a seguire fino in fondo una dieta che, tra le altre cose, inventavo seguendo suggerimenti di inesperti.
Non ho mai sofferto di disturbi alimentari, ma come atleta forse c’è stato un breve periodo in cui sono stata attenta a cosa mangiavo perché altri mi dicevano che dovevo dimagrire. La mia testimonianza è il risultato di ciò che ho visto e vissuto in questi 9 anni di atletica leggera. Penso sia importante far capire perché ho ritenuto estremamente necessario dover fare qualcosa. Sono scomparse molte ragazze dalle piste perché colpite dall’anoressia: alcune sono state costrette ad abbandonare perché il loro corpo, privo di nutrimento, non poteva più sostenere gli allenamenti; altre sono morte, e la cosa più triste è che nessuno sa il motivo. Si organizzano gare in loro memoria, ma non si sa il perché della loro scomparsa.
Ho veramente capito cosa fosse l’anoressia quando la mia carissima amica ha iniziato a stare male. Vedendoci solo alle gare, mi sono accorta che qualcosa in lei non andava. Quando l’ho vista così dimagrita le ho chiesto cosa avesse, “Tensione per gli esami di maturità”, mi ha risposto. E, devo dire la verità, le ho creduto. Inizialmente non mi ha nemmeno sfiorato l’idea che una ragazza così allegra, piena di gioia e voglia di vivere, potesse soffrire di questo male. La situazione è peggiorata, ma alla fine tutto si è risolto. Ovviamente il percorso è stato lungo e difficile ma ha avuto il coraggio di accettare l’aiuto che le è stato offerto e ora è tornata più gioiosa di prima. Ne è prova la sua testimonianza e il suo entusiasmo quando lavoriamo insieme per l’associazione. È tornata anche a correre e sono certa che anche in ambito atletico potrà solo migliorare perché il suo potenziale è grande.
Questa esperienza mi ha fatto scontrare per la prima volta, in modo conscio, con la malattia. È stata la prima e purtroppo non l’ultima.
Il mio è un punto di vista esterno. Voglio cercare di far capire che se si ha anche il minimo sospetto che una persona soffra di disturbi alimentari non si può rimanere indifferenti. È importante intervenire tempestivamente perché prima si agisce maggiori sono le possibilità di guarigione.
Il mondo dell’atletica e più in generale quello dello sport, deve capire che l’anoressia e gli altri disturbi alimentari sono delle malattie e, come ogni altra malattia, devono essere curate. Però è anche necessaria una campagna di prevenzione. Non è difficile, basta semplicemente stare attenti alle parole, basta non “accusare” le ragazzine, atlete e non, di essere grasse o non suggerire diete inventate; avere dei fianchi,avere un corpo femminile, non vuol dire essere grasse.
Spero di aver fatto capire non solo che è una malattia grave ma che ognuno di noi, anche solo con piccoli gesti, può fare qualcosa!
un abbraccio
Non è facile parlare di una malattia che sempre più si diffonde tra i giovani e sempre meno è riconosciuta come tale dai ragazzi.
Non ho vissuto l’anoressia in prima persona, ma l’ho vista aggrapparsi ai corpi di amiche che pian piano perdevano pezzi e neanche se ne accorgevano…
si dice che chi ha problemi alimentari come questi si guardi allo specchio e veda una persona diversa da quella che è…forse non è così e il problema è proprio questo…forse l’immagine riflessa è solo quella materiale, il corpo ormai solo ossa…ma cosa interessa ad una anoressica del suo corpo? nulla in fondo…quello che la tocca è ciò che sta dentro, in fondo alla pancia…quello spazio/elemento innominato che scatena le emozioni…lì non c’è più niente quando qualcuno cade nel pozzo dell’anoressia, non si prova più nulla, e probabilmente proprio la ricerca di un’emozione porta a continuare a torturarsi e a dirsi “forse domani sarò felice…”; finché la ragione ha la meglio sull’istinto, finché il pensiero riesce a sovrastare l’irrazionale…allora ci si rende conto che l’unica risposta, l’unica emozione possibile è la V.I.T.A, quella cosa che qualcuno ti ha donato e che ti rendi conto di non voler perdere così, per una manciata di Kg in più o in meno.
Ci sono milioni di circostanze o motivazioni che portano ad ammalarsi e il primo passo verso la guarigione è la presa di coscienza del fatto che si è effettivamente malati…e si può uscire da quel pozzo, che senza fondo non è.
Mi sono chiesta tante volte come avrei potuto aiutare M., che lentamente si stava spegnendo sotto i miei occhi umidi, che trattenevano le lacrime per non mostrare la mia debolezza…la verità è che non ho scelto io di fare qualcosa…la vita mi ha portata sulla strada, la strada di Villa Garda (una clinica sul lago che cura disturbi alimentari), in quel mese di luglio torrido, quando con lei ho varcato la soglia di quella che sarebbe stata la sua casa per circa sei mesi…non ho capito prima di lei quanto fosse grave e non ho paura a dire che quando ho visto la sua reazione all’idea di curarsi lì l’avrei portata via sulle mie spalle; ma ho paura a dire che spesso anche nella mia mente si è insinuata la brutta idea di smettere di mangiare…per fortuna non ho corso questo rischio e sono contenta di aver aiutato qualcuno, probabilmente senza rendermene neanche conto. La sola mia presenza l’ha convinta a restare dov’era, ad affrontare il problema e a risolverlo con coraggio.
Non mi sono mai sentita così importante per una persona, se non in quella circostanza…
e tuttavia tocca anche a me ringraziare per aver vissuto tutto questo, perché non è facile capire quanto la scalata sia difficile finché non la si vede davanti a noi o con gli occhi di una persona a cui vogliamo bene.
“Siamo quello che mangiamo” diceva un filosofo, forse già prospettando l’idea che se non mangiamo, NON SIAMO.
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